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In salotto ho un orologio a pendolo dei primi del ‘900, compatto, da muro, che proviene dalla casa dei miei nonni materni.

Il meccanismo è contenuto in un parallelepipedo in legno di noce, scuro, con un’antina di vetro a proteggerlo. Si attiva con una chiave a molla simile a quelle delle macchinine di latta di un tempo; il rumore di carica mi fa pensare alla bottega di un orologiaio.

Non ricordo che a casa dei miei nonni perdesse minuti, ma da me inizia progressivamente a rallentare, viene rimesso sul tempo giusto due, tre, quattro volte, poi ce ne dimentichiamo, lasciandolo muto alla parete. Forse mia nonna, che lo amava particolarmente, con pazienza regolava i minuti. Probabilmente aveva scovato l’inclinazione giusta e impercettibile sul muro, non so: è tardi per chiedere.

Ogni cinque o sei mesi l’orologio viene rimesso in funzione e, quando accade, non sempre me ne accorgo. Lo sento suonare e alcune memorie, raramente le stesse, si rovesciano in un istante sulla mia testa, sorprendendomi senza preavviso: ma si sa, i ricordi non chiedono mai il permesso.

È voce d’infanzia, ma viene dal presente. Sovrappone, nei suoi rintocchi, ricordi di impossibili sigarette fatte di foglie di nespolo e carta da giornale a un libro comprato ieri; gatti magri che passeggiano lungo i cornicioni a una camicia sistemata al volo davanti allo specchio prima di uscire di casa; il rumore estivo di stoviglie rigovernate – dopo pranzo, oltre le finestre aperte – alle sparute auto del mattino che passano in strada mentre prendo il primo caffè: un dono di memoria e consapevolezza di tutte le me che contengo.

Non è poi così complicato dotarsi di una macchina in grado di farti attraversare il tempo. La mia madeleine è appesa alla parete, posso portarla con me e passarla in dono, con la certezza che avrà – nei ricordi di chi sta crescendo e vedo disegnare, mentre scrivo, con il capo chino sul foglio  – una voce diversa ma egualmente meravigliosa.

(Paola Giannelli) © riproduzione riservata